La frontiera con la Cina, un passaggio surreale
L’ultima volta che sono stato qui – dice Sebastiano – era più facile attraversare il confine tra Pakistan e Cina. Adesso è tutto complicato: il passaggio di questa frontiera è senz’altro la parte più difficile della nostra avventura. Non possiamo arrivare al confine in sella alla bici: a Post dobbiamo caricare tutto su dei pullmini governativi e farci portare alla dogana che si trova a 60 km di distanza, allo Khunjerab Pass.
Qui inizia quello che per me è un viaggio nel viaggio. Questa volta non geografico, ma nel mondo paradossale della burocrazia cinese. Veniamo portati in un hangar e perquisiti con la stessa identica modalità per ben tre volte: nulla è trascurato, dal dentifricio alle schede di memoria delle foto ogni piccola cosa è accuratamente controllata.
Dopo questo primo controllo varchiamo finalmente la frontiera ma non possiamo risalire sulle bici e riprendere semplicemente il nostro viaggio. No, dobbiamo rimanere sui pullmini per altri 110 km, percorrendo una strada delimitata da reticolato e filo spinato. Sembra quasi di essere in un film di spionaggio o in una dimensione parallela dove la libertà di movimento non esiste più: qui hanno creato una striscia di terra monitorata in ogni momento. Mi chiedo di cosa abbia paura il gigante cinese… Nel 2000 non era così, varcato il confine si poteva semplicemente continuare il proprio cammino, chissà cosa temono oggi.
E non è finita: arrivati alla dogana veniamo portati in un hangar e subiamo un altro, meticoloso controllo di tutta l’attrezzatura, oltre a essere sottoposti a disinfestazione. Con tutta questa procedura i tempi si dilatano tantissimo e non si ha mai la certezza di quando si potrà proseguire il viaggio.
La sfida al Muztagh Ata
Finalmente abbandoniamo i pullmini e possiamo riprendere le nostre due ruote. Pedaliamo per una sessantina di chilometri, fino a raggiungere il “campo materiale”. Si tratta di un campo preliminare dove ci aspettano i cammelli per iniziare la salita al campo base del Muztagh Ata, a 4.600 metri di quota.
Il Muztagh Ata è una montagna tutto sommato semplice dal punto di vista tecnico e, negli ultimi anni, è diventata una meta gettonata per tante spedizioni alpinistiche commerciali da Cina e Giappone. La cima svetta a 7546 metri di quota, è la seconda più alta del Pamir. Per noi, la sfida principale sarà conquistarlo da soli, solo io e Valter.
Al campo base incontriamo alpinisti provenienti da paesi diversi con cui fraternizziamo in fretta. In montagna è così: accomunati dallo stesso obiettivo, si fa presto a diventare quasi una famiglia per il tempo della spedizione.
Noi abbiamo fortuna: riusciamo a conquistare la cima del Muztagh Ata e a scendere in soli 9 giorni. Sicuramente la fase di acclimatamento in Pakistan ci è stata di grande aiuto per arrivare qui, ai piedi del “Padre dei Monti di Ghiaccio”, ben preparati dal punto di vista fisico. Solitamente, chi pratica alpinismo si concentra sul momento dell’ascensione e ci arriva riposato, senza grandi sforzi alle spalle. Noi invece – ed è proprio ciò che contraddistingue Caravanserai – arriviamo con chilometri e chilometri di salita nelle gambe, da un viaggio in bici molto impegnativo che richiede tantissima energia. Ma è come se questo dispendio fisico fosse bilanciato dalla ricchezza di impressioni raccolte durante il tragitto: colori, volti, ricordi che ci hanno pulito la mente e regalato un benessere interiore difficile da descrivere, ma che ti mette nella condizione ideale di poter affrontare un’impresa alpinistica di questo tipo.
Certo, arrivare alla cima del Muztagh Ata da soli non è stata una passeggiata: tra il campo 2 e il campo 3, a 6.850 metri, abbiamo affrontato una bufera tremenda, con vento fortissimo e visibilità praticamente ridotta a zero per via della nebbia. Al mattino però si è aperta una finestra di bel tempo che ci ha permesso di tentare l’assalto alla cima. Ed è qui che la montagna ti mette davvero alla prova! Non con difficoltà tecniche, perché il monte a 250 metri dalla vetta spiana. Ma proprio questi metri relativamente facili diventano quasi un ostacolo insormontabile a livello mentale: la cima non si vede e si ha l’impressione di non arrivare da nessuna parte. Avanti, avanti e pare sempre di star lì. Ma poi si arriva ed è una soddisfazione immensa: la cima del Muztagh Ata è conquistata!
โโโโโโโAnche la discesa non è stata semplice. Subito dopo aver raggiunto la vetta, il tempo è peggiorato e la visibilità era veramente pessima. In quelle condizioni, abbiamo deciso di fermarci a dormire al campo 3, anche se non era previsto nei piani iniziali e ci siamo trovati ad affrontare la notte senza viveri. Ma la decisione si è rivelata poi azzeccata, perché al mattino il tempo era migliorato e ci ha permesso di scendere al campo base in tutta sicurezza, smontando via via i materiali usati per la salita.
Al campo base abbiamo ritrovato gli amici alpinisti che ci hanno accolto con un gran sorriso e pacche sulle spalle. Qui, in questo momento, si è composto il puzzle di Caravanserai 2019: abbiamo raggiunto il nostro obiettivo e lo abbiamo condiviso con chi vive la nostra stessa passione.
Una puntata in Afghanistan
Dal Muztagh Ata ci dirigiamo quindi verso il confine con il Tagikistan, dove ci tocca un’altra trafila per superare la dogana. Fortunatamente non è così complicato come il passaggio alla frontiera cinese e, soprattutto, non abbiamo piani di viaggio precisi da rispettare. Non sapendo in anticipo quanto tempo avrebbe richiesto l’ascesa in Pamir, ci siamo tenuti questi giorni in Tagikistan come “cuscinetto” per arrivare poi al confine con l’Afghanistan. Così, attraversiamo questo paese che subito ci appare molto diverso dalla Cina: una successione di spazi infiniti, dominati dalla natura, dove la presenza umana è quasi assente.
Arriviamo quindi a Khorogh, varco di frontiera per l’Afghanistan. Il passaggio tra i due paesi è segnato da un ponte e qui davvero la geografia ha voluto rendere evidente un passaggio più grande. Qui lasciamo l’Asia centrale per entrare in un mondo remoto, dove il tempo sembra davvero andare a ritroso.
Siamo sempre nel Pamir, nel cosiddetto Corridoio del Wakhan, una striscia di terra sottile che separa Tagikistan, Pakistan e Cina. Qui pedaliamo per gli ultimi 300 chilometri di questo viaggio che ci ha fatto conoscere persone, luoghi e storie che difficilmente scorderemo. Rientrati a Khorogh, mentre ci avviamo verso Dusanbe dove ci aspetta il volo che ci riporterà verso casa, penso a tutto quello che abbiamo vissuto e visto in questi 50 giorni nel cuore dell’Asia. E il pensiero che si fa largo tra i ricordi è che qui abbiamo davvero potuto toccare la differenza tra frontiera e confine. La prima, quella creata dall’uomo, è sinonimo di filo spinato e di chiusura, di isolamento volontario e di controllo. Il secondo invece porta in sé una condivisione: è un con-fine, un tratto comune che non separa ma evidenzia ciò che unisce i popoli. Ed è proprio qui che ritroviamo il messaggio di Caravanserai e della cultura occitana che ci rappresenta e che vogliamo diffondere: uno spazio culturale comune è una base potentissima su cui costruire relazioni al di là delle differenze.
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โโโโโโโDal viaggio incredibile di Sebastiano Audisio e Valter Perlino è nato un documentario che sarà presentato in anteprima il prossimo 27 dicembre al Teatro La Confraternita di Limone Piemonte. Garmont è orgogliosa di aver supportato questo progetto fornendo gli scarponi che hanno accompagnato i due viaggiatori nelle tratte in bicicletta e lungo i crinali dei picchi asiatici. In un’avventura di questo tipo – dice Valter – è importante scegliere accuratamente il materiale tecnico da portare in viaggio. Affidabili e ben strutturate, le Dragontail MNT GTX sono state l’ideale per le lunghe tratte in mountain bike, garantendo anche un ottimo grip nei tratti a spinta. Durante le salite in montagna invece, fino alla quota di 6800 metri del campo 3 sul Muztagh Ata, gli scarponi Tower Extreme hanno mostrato tutte le lori doti di stabilità, comfort e traspirabilità, garantendo anche un ottimo isolamento termico.